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STOÀ
STOÀ 2. Disegni
10 Kapitel über Architektur. Ein visueller Traktat
Oswald Mathias Ungers
1999
Disegnare un pensiero
«Kunst ist Kunst und alles Andere ist alles Andere».
Questa citazione di Ad Reinhardt apre questo singolare libro di Oswald Mathias Ungers, pubblicato a seguito della mostra tenuta al Wallraf-Richartz-Museum di Colonia nel 1999.
Singolare è innanzitutto la forma del volume: un quadrato bianco di lato 15 cm, con il disegno della costruzione geometrica della lettera U di Luca Pacioli in copertina e il profilo dell’architetto tedesco sul retro elaborato come una porzione di territorio con curve di livello.
Singolare appare anche il suo contenuto: un prologo composto da sei citazioni tratte da vari autori – Beckett, Calvino, Benn, Valery, Le Corbusier, Wittgenstein – e una serie di schizzi di Ungers, interpretabili come immagini architettoniche archetipiche: una colonna, il tempio di Poseidone e la Basilica a Paestum e due viste di Castel del Monte. Un insieme di elementi che testimoniano la continuità e l’incessante pensiero sulle cose di cui l’architettura fa parte, costruendo una riflessione che non intende fermarsi alla semplice pratica edilizia, ma all’architettura come parte del pensiero profondo dell’uomo e nell’assunzione imprescindibile di questa pratica come arte.
Il libro prosegue con il suo corpo centrale caratterizzato da dieci capitoli rappresentati da soli disegni: schizzi dell’autore, disegni di trattati o elaborazioni di architetture di riferimento, disegni delle sue architetture, costruite o solo progettate, alcune delle quali rimaste quasi astrazioni.
Questo trattato visuale – così come definito da Ungers nel sottotitolo – è la raffigurazione del suo punto di vista sull’architettura: un punto di vista che non è solo concettuale, ma cerca di essere concreto, tangibile, o almeno raffigurabile. Non vi sono saggi, scritti, testi nei vari capitoli, se non la presenza fissa di una chiosa finale. Un’unica frase conclusiva che sintetizza in pochissime righe la grande successione di immagini che ogni singola sezione contiene. Per circa 800 pagine quadrate, testimonianza dell’ossessione e costanza del pensiero, dell’incessante ricerca di un filo che connetta il percorso artistico di una vita, il libro si sviluppa attraverso disegni rappresentati sempre in bianco e nero, esaltati solo dal variare della singola linea, che progressivamente raccontano percorsi tematici.
Solo nelle ultime pagine del libro, in quello che viene chiamato Epilogo, vengono inseriti alcuni brani, stralci tratti da alcuni testi, scritti negli anni dallo stesso Ungers, in cui vengono rimessi in evidenza i valori teorici e fondativi della sua architettura, non solo opera edificata ma vera e propria teoria costruita: il valore della forma, il ruolo dell’architettura come generatrice di spazi e luoghi urbani, ovvero come parte fondante della nostra esistenza, il tema della unità nella complessità.
Benché il modello e le modalità sembrino richiamare l’esempio del trattato classico rinascimentale – in particolar modo I Quattro Libri dell’Architettura di Palladio, dove l’architetto racconta l’architettura attraverso il suo lavoro – questo libro di Ungers si pone a metà strada tra un trattato di architettura e un’autobiografia, definibile quasi un’autobiografia architettonica. Sono presenti le sue architetture e i suoi riferimenti, i processi e le suggestioni, i temi costanti e incessanti su cui la sua opera si fonda. Ungers sembra voler evidenziare che non solo l’architettura è l’oggetto finito, visualizzabile, comprensibile, ma è anche il tracciato di un pensiero, che si estende oltre questa, che ci riguarda più profondamente, che non smette mai di seguirci, che non è mai cosa a sé conclusa.
E forse il modo migliore per raccontare l’intimità del nostro mestiere non è attraverso la scrittura, ma solo attraverso l’unico linguaggio che all’architettura compete: il disegno, rappresentando quello che vediamo, quello che facciamo, quello che in realtà siamo. Recensione di Vincenzo D’Abramo