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Discorso tecnico delle arti

Gillo Dorfles 

1952



Pubblicato per la prima volta nel 1952 e riedito nel 2003, a distanza di circa mezzo secolo, questo libro è il primo contributo di Gillo Dorfles all’estetica italiana e continua a rappresentare una sorta di vademecum sull’argomento.
In antitesi alla linea idealista crociana – allora in auge – Dorfles  porta avanti la sua indagine sui linguaggi artistici giungendo a elaborare una vera e propria fenomenologia della tecnica riferita alle arti.
L’incipit goethiano che recita «l’arte è una mediatrice dell’ineffabile, perciò sembra una stoltezza il volerla nuovamente trasmettere con le parole»[1]si fa carico in qualche modo di riassumere l’intero compendio dello studioso triestino che, sin dal titolo, si muove nelle corde di un dichiarato ossimoro: arginare nella razionalità di un discorso logico l’irrazionalità che alimenta ogni fare artistico.
E proprio nel titolo, l’uso della preposizione – delle – sottolinea la volontà di discostarsi dalla pretesa individuale di utilizzare la tecnica per argomentare sulle arti.
Il libro risulta diviso in due sezioni.  La prima si sofferma sulle costanti formative della creazione. Rifuggendo dalle gabbie stringenti della catalogazione razionale – con i convenzionali distinguo tra arti primarie e secondarie, figurative e non-figurative, astratte e naturalistiche – Dorfles concentra piuttosto la sua attenzione sui principi guida, i comuni denominatori, quelle costanti mutevoli che accompagnano il fare artistico in ogni cultura e ogni tempo.
Ritmo, prospettiva, immagine, proporzione sono le categorie chiamate in causa come termini di comparazione tra le arti facendo da filo conduttore all’interno di tutta la trattazione.
Il ritmo, inteso come tempuscolo, un intervallo che sfugge alle analisi, viene però differenziato dal metro, dal tempo misurabile; la proporzione, svincolata dal numero, è liberata dalla rigidità delle regole auree; l’immagine, come una sorta di fumosa reminiscenza è separata dal corrispettivo estetico della figura.
Tutto ruota intorno all’elemento percettivo, indistinto, embrionale, quella scintilla indicibile che afferisce, in ultima analisi, unicamente alla sensibilità soggettiva.
Senza mancare puntuali disamine, Dorfles perviene alla consapevolezza dell’assoluta arbitrarietà delle regole che la tecnica ha nel tempo codificato, pur riconoscendo il loro imprescindibile ruolo in ogni attività creativa. È proprio però nella deviazione rispetto ad un canone prestabilito che risiede – secondo l’autore – il nocciolo dell’opera d’arte.
Particolarmente interessante è la riflessione rispetto al medium che assume una vera e propria valenza maieutica. Il pennello per l’artista, un blocco di pietra per lo scultore, il materiale costruttivo per l’architetto: lo strumento, intercedendo tra pensiero e azione, occupa il ruolo di cooprotagonista dell’opera. L’efficacia dell’esito finale risiede dunque anche nella capacità di sfruttare e dominare i mezzi a disposizione perché «solo quando la materia grezza sarà divenuta materia espressiva potremo parlare d’una vera meta raggiunta»[2]. Una opportuna precisazione è fatta rispetto a architettura e musica, le uniche due arti che possiedono un proprio codice espressivo anche al di là del medium reale.
Sebbene la manifestazione ultima dell’ opera architettonica sia lo spazio, vivibile, Dorfles riconosce come – e così vale anche per la musica – la scrittura di cui quest’arte si serve è dotata di una sua autonomia estetica, una propria semantica astratta: il disegno è capace di restituire con esattezza la qualità dell’edificio che si fa carico di rappresentare.
La seconda parte del libro è invece dedicata ai rapporti e alle interferenze tra i linguaggi artistici. Ponendo a confronto musica, pittura, poesia, danza, cinema, architettura e linguaggi plastici, l’autore snocciola accuratamente similitudini e discrepanze. Soffermandosi sui rapporti tra architettura e scultura non manca di sottolineare la sostanziale differenza che intercorre tra un’arte che è spazio rispetto a una che occupa lo spazio. L’architettura è per Dorfles non solo la detentrice della misura spaziale a servizio dell’uomo ma anche arte che spazializza il tempo perché crea una durata che è movimento impietrato.
Senza cedere ad atteggiamenti nostalgici, speculazioni filosofiche o restrizioni alla mera percezione questo volume può essere considerato come una sorta di coscienza critica nell’epoca dell’imperante virtualità, un’implicita esortazione alla libera creatività artistica e un invito a considerare la tecnica senza però mai essere da questa assoggettati. Recensione di Francesca Iarrusso



[1]Gillo Dorfles, Discorso tecnico delle arti, Marinotti, Milano, 2003, p. 11
[2] Ivi, p. 72



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2021 - Published by Thymos Books
ISSN  2785-0293