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STOÀ
STOÀ 1. Modelli
OASE #84. Models/Maquettes
a cura di
Job
Floris, Anne Holtrop, Hans Teeerds, Krijn de Koning, Bas Princen
2012
Modelli. Cose necessarie al pensiero
Pubblicato nel 2011, il numero 84 di OASE Journal – rivista fondata nel 1981 da un gruppo di studenti della Facoltà di Architettura della TU Delft fortemente interessati a temi del dibattito internazionale di quegli anni a loro parere non adeguatamente affrontati nelle scuole d’architettura dei Paesi Bassi – affronta il tema Models/Maquettes a partire da coppie dialettiche di saggi tenuti insieme per esplicitare le diverse sfaccettature – anche esterne allo specifico disciplinare del progetto di architettura – attribuibili al modello.
I curatori del numero – Anne Holtrop, Job Floris, Hans Teerds, Bas Princen e Kirjn de Koning – definiscono a partire dall’editoriale l’ambito entro cui confluiscono le riflessioni contenute nei testi: la dualità del ruolo del modello nella sua accezione di strumento non soltanto destinato ad essere rappresentazione in scala di un’idea di progetto, ma vero e proprio prodotto di un processo «architettonico o artistico» capace di produrre una realtà altra dovuta al suo intrinseco «carattere oggettuale». Il modello è qui inteso come detentore di una specifica condizione – non è più mera riproduzione in scala del reale – che assume un carattere autonomo nel suggerire «completezza» attraverso la sua estensione nelle tre dimensioni dello spazio. Contaminandosi con l’immaginario e il portato culturale di chi osserva, il modello lascia scaturire quel visionario necessario per produrre punti di vista inediti sul progetto, aprendo nuove possibilità per quegli effetti «inconsci, non premeditati e persino generativi» che influenzano il processo di design, come individuati dagli autori del catalogo Idea as Model esito della mostra omonima a cura di Peter Eisenman presso l’Institute for Architecture and Urban Studies di New York del 1976, citata dai curatori del numero come vero punto di partenza a cui riferirsi.
Le maquettes prodotte da OMA e presentate nel primo saggio da Christophe Van Gerrewey – realizzate in modo tale da «vivere di vita propria» sottendendo alcuni aspetti selezionati per contribuire ad una specifica narrazione del progetto (dalle immagini del noto modello di concorso per la Très Grande Bibliothèque di Parigi del 1989 quelle del recente progetto per il centro commerciale KaDeWe a Berlino, 2015-2021) – trovano definizione in alcuni passaggi nel testo di Milica Topolovic che ne chiariscono premesse e intenzionalità. I modelli sono infatti da intendere come architetture «dell’immaginario» che rimandano a condizioni fuori da sé e dalle costrizioni della rappresentazione in scala. Ciò è reso evidente dalle straniantifotografie dei grandi modelli di carta di Thomas Demand – riproduzioni di luoghi senza nome e precisa collocazione, ma che invitano a riconoscere connessioni e relazioni con immagini sopite nella memoria di chi osserva – e nel lavoro di John Hejduk descritto nel saggio di Kersten Geers, in cui il grado di astrazione dei grandi modelli – quasi mockups – risulta essere un modo per disinnescare la necessità della costruzione fisica, rendendola, di fatto, superflua. Un modello che funge da «pianta», inteso come notazione per la realizzazione di una ersatz reality inclusiva e generativa, aperta a modificarsi verso altre configurazioni.
Il modello è tuttavia sempre un modello di: la sua auspicata autonomia è minata in nuce dal riferirsi al dominio dell’architettura pensata e disegnata. A partire da queste considerazioni riprese dal saggio introduttivo per Idea as Model di Richard Pommer, Stefan Vervoort rintraccia nei lavori di tre artisti, Rita McBride, Thomas Schütte e Julian Opie, uno specifico «modus operandi» teso a liberare il modello dalle costrizioni della rappresentazione valicando il confine con l’arte e facendosi, quindi, scultura. A dimostrare tale contaminazione, il testo di Mike Kelley discute l’opera-maquette Educational Complex (1995) come riproduzione sotto forma architettonica di ricordi e proiezioni personali: in loro assenza, il modello si rivela vuoto, privo di significato apparente. Nell’approccio dello studio londinese Caruso St John – descritto da Adam Caruso intervistato da Holtrop – il modello sembra invece assurgere punto di partenza del processo progettuale attraverso cui studiare atmosfere e caratteri di un dato spazio e da cui far scaturire l’idea di progetto. Le loro maquette – spesso realizzate con materiali poveri, riciclati da altri modelli, con texture stampate da smontare e rimontare a seconda di diverse prove e tentativi – non sono mai costruite per essere osservate dall’alto, in tre dimensioni, ma soltanto per essere fotografate. Scenografie da tradurre in immagini bidimensionali in grado di trasmettere un’atmosfera che, testata nel modello, aspira ad essere riprodotta in scala reale.
Dalle idee alla materia, quindi, e viceversa, nei contributi raccolti in OASE #84 il modello acquisisce diverse connotazioni in un percorso iterativo tra rimandi ad una dimensione altra, parziale e soggettiva, e un’altra concreta e con ricadute sul reale, tra astrazione e mimesi. Nell’intervista a Demand, Holtrop cita un episodio accaduto al pittore René Magritte, che nel sentirsi chiedere a cosa pensava mentre dipingesse, rispose: «non è possibile dipingere un pensiero, è soltanto possibile dipingere le cose di cui quel pensiero necessita». Più che da una prefigurazione architettonica indotta e da una sua acritica riproduzione in scala, il modello discusso in questo numero di OASE sembra attingere proprio da queste cose – impalpabili ma con ricadute tangibili – necessarie al pensiero, e come queste, nel loro rimandare a qualcos’altro, siano in grado di assumere una nuova condizione di esistenza proponendo una realtà fisica e architettonica che supera il concetto di rappresentazione per inoltrarsi nel campo dell’investigazione progettuale. Recensione di Luigiemanuele Amabile